Laboratorio Culturale: Storie tra Salute e Lavoro
Narrazioni ed immagini
INTRODUZIONE
Ogni cambiamento nella e della società, per essere reale e profondo deve attraversare anche le relazioni delle persone che la compongono.
Affrontare i problemi di salute di chi arriva “straniero” nella città significa, quindi, riflettere anche sul nostro mondo, sulle condizioni che determinano la possibilità per tutti di vedersi garantito il diritto alla salute fisica e psichica, sugli aspetti relazionali e sociali, economici, giuridici e politici che rappresentano le determinanti profonde del nostro benessere.
Non intendiamo quindi occuparci di salute solo nel senso biomedico, di semplice assenza di malattia, ma in senso globale; della salute, cioè, quale indice di una situazione di ben–essere generale, di tipo fisico, psichico e sociale. Essa si dà dentro traiettorie di vita nelle quali le dimensioni della materialità e della libertà personale si completano con pratiche di prossimità, relazionalità e responsabilità nei confronti del contesto umano ed ambientale nel quale ci si trova a vivere. Il buen vivir, appunto.
QUALCHE RIFLESSIONE
In particolare vorremmo organizzare e proporre dei momenti, delle occasioni di riflessione sul rapporto SALUTE – LAVORO e, più precisamente, sugli effetti che hanno sulla salute e sulla qualità della vita delle persone i cambiamenti nei modi di lavorare e l’incertezza del lavoro stesso. L’idea è che, considerando la molteplicità delle situazioni legate a questo tema e la grande varietà delle persone coinvolte, si possano trovare elementi comuni, elementi di unità e ragioni per una maggiore coesione sociale. Non si tratta tanto di parlare di sicurezza nei luoghi di lavoro, tema comunque sempre attuale; ma del fatto che sempre di più, così come lo stato di salute determina l’effettiva possibilità di lavorare, ugualmente il lavoro, o meglio, le condizioni in cui si lavora, il modo di lavorare, le prospettive lavorative, influiscono sulla salute fino a diventarne una determinante.
Come non considerare, specialmente in questo momento storico, quale impatto può avere sulla salute fisica e psicologica e sul benessere complessivo delle persone l’esclusione dal mondo del lavoro? Il licenziamento ha spesso effetti negativi sulla salute della persona che lo subisce e sulla sua famiglia. Ma anche altre persone che non abbiano subito il trauma del licenziamento possono vivere situazioni analoghe. Soprattutto in una condizione di incertezza accresciuta dalla crisi economica che si sta attraversando, si pensi all’influenza che possono avere, oltre alla disoccupazione o alla prolungata cassa integrazione, anche il lavoro precario, quello interinale, quello “in nero”. Tutto ciò crea insicurezza che non è solo economica, ma che, più complessivamente è legata alla fatica di poter immaginare un futuro sereno e di veder riconosciuta la propria dignità di persona. Questo vale ancora di più per chi trova nel lavoro non solo un veicolo di integrazione sociale e una base di benessere economico, ma anche una condizione imprescindibile per realizzare il proprio progetto migratorio.
Non dovrebbe sorprendere che a proporre questa riflessione sia un’associazione che da anni si occupa/preoccupa di salute. Forse proprio chi si prende cura di un corpo può rendersi conto che esso, lungi dall’essere la somma delle parti che lo compongono, è invece la sintesi di una storia, raccoglie e racconta una biografia, rappresenta il luogo dove trovano unità tutti gli elementi della vita di una persona; è lo spazio, la realtà che “esprime” tutto ciò che un uomo o una donna vive, con cui narra la propria storia e la strada che ha percorso.
Ma il corpo può essere visto anche in un altro modo. Come oggetto, strumento di lavoro, ingrediente essenziale per collocarsi all’interno del sistema produttivo. Quando si ammala deve essere curato, “riparato”, allo scopo di preservare le energie per il suo ruolo economico. La sofferenza di una persona, in questa prospettiva, ha diritto di essere presa in carico nella misura in cui essa va ad impattare sulle performaces produttive di chi la vive.
Proprio qui può però avvenire un paradossale ribaltamento. La malattia, oltre che incidente di percorso dentro la dimensione lavorativa del soggetto in questione, sembra assumere un ruolo differente: quello di dispositivo attraverso cui poter esprimere, al di là della semplice alterazione biologica, il proprio disagio esistenziale. Con l’implicita (ed spesso inconscia) richiesta che esso venga ricondotto alle sue vere origini: socio-economiche, politiche, umane.
Il corpo insomma ha l’importante ruolo di “parola”. La domanda di cura, così come la ricerca di lavoro gratificante e, più in generale, l’aspirazio ne a una condizione di benessere globale, sono anche richieste di “riconoscimento”. Della dignità di cui ogni persona si sente portatrice, titolare.
All’interno di questo quadro, va ricordato che esistono documenti che richiamano fortemente il legame esistente tra il concetto di dignità umana e le condizioni materiali di vita. In particolare la Dichiarazione universale dei diritti umani (articolo 23) e la Costituzione italiana (Titolo III), non solo dedicano uno spazio particolare al lavoro, ma, in particolare la nostra Costituzione, individuando nel lavoro un fondamento della Repubblica (art. 1), sottolinea il nesso fra dignità della persona e condizioni di libertà e uguaglianza a livello economico e sociale (art. 3).
COME PROMUOVERE QUESTA RIFLESSIONE?
Pensiamo che uno degli strumenti più interessanti e d efficaci possa essere quello della narrazione che, da un lato, permette di rimanere aderenti al vissuto delle persone e, dall’altro, sembra anche essere una modalità di interpretazione della realtà comune a tutte le culture. Le narrazioni sono storie così come vengono raccontate nella vita quotidiana, sono il modo più naturale e diretto con il quale le persone descrivono la propria esistenza e, spesso, la propria sofferenza. Ci sembra possa essere un modo per conoscere la realtà anche attraverso gli occhi e le voci dei personaggi coinvolti.
I linguaggi attraverso cui raccogliere questi racconti possono essere molti. Noi pensiamo di ricorrere anche a forme non verbali, in particolare al linguaggio teatrale, a quello fotografico, a quello audio-visuale.
Crediamo importante coinvolgere in questo percorso altri soggetti della città: dalle realtà che già s’interessano al tema del lavoro (i sindacati, i centri d’educazione degli adulti, l’università, ecc.), a chi sperimenta nella propria vita il delicato rapporto tra salute e lavoro (ad es. gli studenti, i precari, ecc.), alla “gente comune” perché pensiamo che siano molte le persone che, raccontando la propria storia, possano offrire suggestioni e suscitare riflessioni utili per costruire una società più attenta e più ospitale per tutti.
Ci rivolgiamo a chi si occupa, a vario titolo, di teatro, fotografia, cinema, di narrazioni perché crediamo che utilizzando gli occhiali dell’estetica oltre a quelli dell’etica possiamo approfondire il nostro sguardo e la nostra comprensione sulle tematiche cui abbiamo accennato e che ci stanno a cuore.
Bergamo, novembre 2010